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sec. XVII mappa del vaso bajoncello bresciano scon.


a.1870 I Guelfi danno battaglia(1) di Federico Odorici


a.1870 I Guelfi danno battaglia(2) di Federico Odorici


a.1882 Un'antico sepolcro scoperto presso Castelcovati dai CAB *


I tedeschi a Castelcovati di Paolo Guerrini


S.Maria delle nuvole di Castelcovati di Paolo Guerrini


Castelcovati - cenni storici di Fausto Lechi


Quei lignicoli di S.Maria di Giacomo Massenza


a.1996 Comune di Castelcovati - brevi cenni storici di Giuliano Gritti


a.2008 L'antica chiesa di S.Maria delle nuvole di Sergio Onger


I caduti "ritrovati" di Quinto Capitanio




I GUELFI DANNO BATTAGLIA (1)

1316 Surto il mattino, cessata la strage, predicata dagli araldi la città nostra di parte guelfa, laudavansi con accomodate concioni i della Torre, laudavasi Cavalcabò; que’ del Benaco si ringraziavano di un fatto che avvolgeva il Signore nelle tenebre della notte, perché quelle si meritasse dai posferi indulgenti di una eterna oblivione. Ma debito solenne è di chi cerca la storia dei padri nostri mettere coraggiosa la mano su queste piaghe, e disvelarle altrui, sicché vitale a tutti cui freme nel petto un’anima italiana venga il forte insegnamento della sventura. Vesta pure la storia della soave sua luce le care imagini della virtù, e di miti e puri sensi c’informi e ci ricrei: ma lampeggi terribile ad un tempo fra le procelle dei popoli esagitati, e martelli il delitto, e lo perseguiti come il rimorso di chi l’ha compiuto. Espulsi i ghibellini, posto a sacco il vescovile palazzo, già pensavano i guelfi a que’ castelli del Bresciano che dai proscritti venivano ricuperati. Conciossiachè già si tenevano Iseo, gli Orzi, Pompiano, Quinzano, Calvisano, Pontoglio, Palazzolo avevano Chiari, Villafranca, Rudiano; e fattisi forti agli Orzi¹, locavano presidio in Leno, Gambara, Pavone, Gottolengo, Pratalboino; entravano in Ustiano ed in Canneto, assai luoghi minacciando delle nostre pianure; né domi ancora dall’ avverso destino, mandavanti legati al della Scala, e di sovvenimento lo ricercavano². E rinforzi venivano da Valcamonica: guidati dai Federici favoreggiatori potenti di parte imperiale, accostavano ad Iseo. L’audacissimo Brisoldo metteva intanto in rotta qua colà pei castelli bresciani le bande ghibelline, e più quelle degli Isei³ I principalissimi della terra da cui tolsero il nome4, mentre per militari accorgimenti impadronitisi i guelfi di Palazzolo, e colto nella rete presso monte Orfano (che il Maggi farebbe lo stesso che monte Rubasacco ricordato dal Malvezzi) quell’ arrischiato ghibellino di Galeotto Maggi, lo mettevano in ceppi5.

1. CODAGLIO, Storia Orceana — lib. II.
2. Porro expulsi cives ad castella Ysaei, Palazoli, da Claris, Pompiani, de Urceis, Quinzani, Pontolii, Rocchefrancae, Leni, Calvisani, Rudiani, Cizaghi, Visani, Canedi, Ustiani, Gotalengi, Pavoni, Gambarae, Pradalboini et alia circumsita loca se contulerunt, et ipsarum terraruin dominium fortiter obtinentes. Civitatem terrasque . . . magnopere conturbant. At gibellini Vallias Camonicae . . . contra civitatem etc. MALV. Chron. Brix. dist. IX, e. XXIX, col. 982, Rer. Ital. S. t. XIV. Ed il CAPRIOLO, Chron. de rebus Brixianorum , libro VII, carte XXXXIII, edizione dell’ anno 1500.
3. E detti poi degli Oldofredi.
4. Brizoldus de Malueliis ... in Gibellinorum villas irruens, multas illis strages inferebat. Verum magnates de Yseo ... quos maxime exosos, habebat, atrocius debellabat. Malvezzi, dist. IX, capo XXIX. — Alcune diversità di passi malvezziani raffrontati all’ edizione del Muratori dipendono dall’aver preferito in alcuni luoghi la dizione del Codice di quelle cronache, riveduto dall’ abbate Zamboni e posseduto dall’ ab. Lodrini.
5. MALV. dist. IX , c. XXX. Urbis Praesides electam ... comitivan adversus Palazolum mittunt, qui apud Montem Robasacchi insidias latentes etc. cumque impetum ad terram fecissent.

Federico Odorici, in "ULTIMI ANNI DELLA BRESCIA. INDIP.", pp. 335-336





I GUELFI DANNO BATTAGLIA (2)

1329 Morto Cangrande, pronti assunsero il reggimento di Verona Alberto e Mastino nepoti suoi. Nel primo le cortigianesche, nel secondo allignavano le guerresche virtù del precessore. La somma delle cose dovea quindi restare a Mastino, ed in buon punto restò: perchè i battuti sempre, né mai spenti ghibellini di Brescia, suscitando nuove leghe si rifacevano, ed istigavano finché si venisse alle mani. Mastino esultava. Ma d’altro canto congregato l’esercito, fieri dei soccorsi di Bologna e di Firenze¹ , imbizzarrivano ad un tempo i guelfi; e rovinando agli Orzi quel tante volte oppugnato castello, trucidati a Pompiano quanti vi si trovavano nemici, preso Rudiano, vennero a campo a Castel Coato. Ivi quella maledizione degli stipendiati stranieri che sì tenace appigliò dentro Italia, né fu per secoli schiantata, custodiva il paese: erano tedeschi al soldo di Azzone Visconti; ma tedeschi e ghibellini, superati dai nostri, disgomberavano². 1330 Le ambizioni dello Scaligero si colorivano. Pretesto il ritorno in patria dei ghibellini bresciani che sempre gli erano[…].

1. MALV. Chron. Rer. IT. S. t. XIV, dist. IX, c. 66, col. 999.
2. MALV. 1. cit. Primunque ad castrum de Urceis pervenientes circumsita loca rapinis, igne caedeque etc. etc. Oppidum Pompiani pari modo expugnantes ceperunt, ci triginta viris... trucidatis, illud penitus subverterunt etc. — Centum circiter quinquaginta armigeri equites in castrum Coatorum irruerunt, contra quos expulsi cives de Brixia cum Theutonicorum comitiva. quos ad eorum subsidium Azo Vicecomes direxerat, occurrentes, ipsos forti pugna viriliter invaserunt etc. — Narra il Maggi accadessero queste cose nel 1322. — Osservo per altro, che l’ ancor giovinetto Visconte non era dall’avo Galeazzo di alcun potere investito, e come per lo contrario se ne stesse non per anco uscito di fanciullo in Piacenza colla madre Beatrice, la quale nella presa che si fece della città poneva in salvo l’amato figliuolo; né aveva questi alcun tedesco al soldo. Si gli aveva Galeazzo, e ne fu tradito. — Di converso, duca nel 1329 era Azzone del proprio Stato. Aveva 500 tedeschi (ed erano i famosi del Ceruglio) ribellatisi a Lodovico, di cui si veggano le cronache milanesi.

Federico Odorici, in "ULTIMI ANNI DELLA BRESCIA. INDIP.", pag. 364





UN ANTICO SEPOLCRO SCOPERTO PRESSO CASTELCOVATI

Il segretario legge la brevissima descrizione di un antico sepolcro, mandata dall’egregio sig. prevosto di Chiari don G. B. Rota. ”Sterrato, fan poche settimane, nel fondo Garzetti presso la strada antica per la Marocchina a un miglio circa sud ovest da Castelcovati, era formato di mattoni embricati lunghi da centim. da 54 a 57, larghi presso a 46, e misurava m 1.77. L’argilla è bianchissima e di durezza lapidea. Uno è di argilla rossa, identica a quella d’altri scoperti a Romano (ora nella pinacoteca di Chiari) e a un frantume di embrice che condusse a discoprire (1871) il poliandrio della Porta Rossa. La identità dei primi con quelli del sepolcro lungo la via Cimbriole (1843) e la stessa epoca (IV secolo) ci conducono a credere che non molto lungi esistessero fornaci laterizie. Le due piccole anfore ed un vasetto pure ansato col labro sparso non hanno 1’impronta del figulino: non erano verniciati, né può quindi attribuirsi ad alterazione dell’ossido di ferro il colore nerastro di qualche coccio. L’ unica moneta di bronzo ha la protome dell’ imperatore colla leggenda Costantinus P. (pius) F. (felix) AVG. (augustus). Avendo il capo ricinto del diadema e non dell’alloro, devesi assegnare all’anno 312, prima fra le monete del vincitore di Massenzio (Ekel, doct. numm. vet.). Il rovescio è corroso: pare vi fossero rappresentate due figure con asta, o piuttosto le due cornucopie; e la leggenda dovrebb’essere P. (pontifex) M. (maximus) TR. P. (tribuncia potestate) Cos. II; in quell’ anno Costantino era console la seconda volta (Petav. Rat. temp.). L’avambraccio dello scheletro portava un’ armilla (diam. c. 6) ornata esteriormente di rombi formati di lineette parallele. Un’ altra armilla spezzata era segnata in giro da linee punteggiate che si toccano ad angolo molto acuto. Sono ambe di sottil lamina di rame. Un anello di bronzo (c. 2) serba porzione dell’incastonatura.

Accadendo di scoprire altri sarcofaghi intermedi o vicini all’esteso triangolo, alle cui estremità stanno quello di Chiari a sera, questo a mezzodì, e il poliandrio a mattina, si potrà forse dedurre qualche notizia importante per l’epoca dal II al V secolo.” Fa perciò voto l’egregio Rota che questi cimeli si conservino, sì che non se ne lamenti poi la dispersione. come pur troppo accade sovente con grande scapito degli studiosi delle antiche memorie. Il cav. Rosa osserva che il sig. prevosto Rota è l’autore del dotto e pregiato lavoro Il Comune di Chiari, testè publicato e donato pure all’Ateneo. Gli si deve riconoscenza e per queste notizie e per la cura amorosa posta in tali studi.

dai Commentari dell'Ateneo di Brescia, 1882 pp. 16 - 17 *




I TEDESCHI A CASTELCOVATI

All’incrocio delle due strade Chiari-Comezzano e Castrezzato-Rudiano sorge una vecchia torre medioevale che domina il quadrivio, e che innalzata di pochi metri serve ora da campanile parrocchiale. E’ l’unico avanzo del primitivo castello che i signori Covati ebbero a erigere nel secolo XIII in mezzo alla loro campagna e intorno al quale si è sviluppato il paese sulla direttiva delle quattro strade che si dipartono dal castello. Il quale era piccolo quasi come un guscio di noce, non aveva nessuna importanza strategica o militare ma era il rifugio delle poche famiglie di contadini che vi abitavano che vivevano in povere casupole di legno, paglia e fango, facile esca del fuoco. Per questo si capisce perché la Chiesa parrocchiale, sorta poco distante dal Castello sulla via per Comezzano, sia stata dedicata a S. Antonio abate (festa patronale 17 gennaio) che nel Medioevo è stato dovunque onorato come patrono contro il fuoco e i suoi pericoli. Nel secolo XII il territorio di Castelcovati era ancora quasi tutto incolto, come del testo anche i territori circonvicini non ancora solcati dalle rogge di irrigazione dedotte poi dal fiume Oglio, come la Vedra, la Castrina, la Castellana, la Trenzana, ecc... In un documento del 1165 da me pubblicato nelle Memorie storiche a. I (1930) p. 221-23, il detto territorio viene chiamato incolto. Apparteneva allora alla Pieve di Trenzano, ed è stato l’arciprete D. Pescatore col suo capitolo a infeudare ai monaci cluniacensi del monastero di Rodengo la chiesa e i fondi di S. Maria de li incoltis perchè vi iniziassero quella trasformazione agraria che doveva cambiare il nome a questo complesso agricolo che si chiamò e si chiama tuttora S. Maria delle Nuvole (dalla voce latina novus che indica terreni sterili o abbandonati ridotti a coltura. Questo cascinale costiuisce il beneficio parrocchiale di Castelcovati, ed è evidente che il monastero di Rodengo, oltre avere bonificato il territorio, ha dotato di questi fondi la chiesa di S. Antonio costituendovi la necessaria dotazione per la cura d’anime. Lo sviluppo del paese è dovuto alla bonifica del territorio, e dopo l’opera del Monastero di Rodengo, succedette quella dei suoi feudatari, i nob. Masperoni, che avevano larghi possedimenti in tutto il territorio circostante a Chiari e dai quali io ritengo sia discesa la famiglia Covati, che ha dato il nome poi al Castello. Veramente il cognome della famiglia dei Covati è stato aggiunto più tardi; il Castello è tuttora denominato soltanto Castello nei paesi circonvicini, e da questo castello ebbero origine e si denominarono le varie famiglie Castelle, de-Castello e anche i cognomi Castellani e Castellini. Da una di queste famiglie Castelli è disceso il famoso scienziato, matematico insigne, D. Benedetto Castelli, discepolo, amico e protettore di Galileo Galilei, da lui difeso e seguito sempre con ammirazione nelle sue dolorose vicende. Anche la storia di questo piccolo paese rurale non esce dalla comune vita tranquilla delle nostra campagne. Qualche avvenimento notevole di carattere militare l’ebbe per la sua stessa posizione geografica. Afferma il Malvezzi, confermato da carte dell’Archivio di Rudiano che intorno al 1322 il Castello dei Covati sia stato incendiato e distrutto dalla soldataglia tedesca assoldata dai Visconti. I tedeschi ripeterono più tardi le loro imprese contro Castelcovati durante i cinque anni della guerra di successione spagnola e specialmente nell’anno 1701 prima e dopo la famosa battaglia di Chiari. Sebbene comandati da un principe italiano, il celebre Eugenio di Savoia, anche a Castelcovati, come in tanti altri paesi della nostra provincia nella quale la guerra infuriò più che altrove, i soldati tedeschi saccheggiarono, derubarono, incendiarono e commisero tante altre infamie che sono narrate in una breve cronaca locale da me pubblicata nel V. III delle Cronache bresciane inedite (pag. 479-483). Alle case primitive che costituivano il Castello, furono sostiuite, attraverso i tempi, delle belle case signorili, come quelle delle famiglie Cadeo e Marini (ereditata questa dalla famiglia Montini) e altre più modeste, ma dignitose. La chiesa parrocchiale di S. Antonio non ha pregi architettonici e nemmeno notevoli opere d’arte. La pala dell’altar maggiore e quella dell’altare della Scuola sono opere di Santo Cattaneo. Altre pale di pittori ignoti ma della stessa epoca del ‘700 si trovano tanto nella parrocchiale come nella chiesa della Disciplina che le sta di fronte e nell’Oratorìo di S. Martino (il Guerrini qui, commette un’ errore dovuto alla non ancora approfondita storia dell’Oratorio di San Marino, ndr) al Cimitero che era di P.tà della nobile famiglia Marini (Brixia sacra 1921, pag. 108).

Paolo Guerrini, in “Giornale di Brescia” 30 dicembre 1956.




S. MARIA DELLE NUVOLE DI CASTELCOVATI

Nel breve cenno sulla parrocchia di Castelcovati dato nel vol I degli Atti della Visita pastorale del vescovo Domenico Bollani (pag. 130) abbiamo affermato che quella parrocchia di S. Antonio Abate nel castello dei Covati era succedanea dell’antichissima chiesa o cappella campestre di S. Maria eretta sui noali o nella campagna bonificata e coltivata dai monaci cluniacensi di Rodengo. I rapporti fra il monastero della Franciacorta e il territorio acquitrinoso di Comezzano - Cizzago - Castelcovati erano stati appena accennati su incomplete indicazioni documentarie. Ora possiamo pienamente confermare quell’ipotesi con un documento del sec. XII, ramingo frammento dell’archivio di Rodengo esulato con altre poche carte di quel monastero nell’Archivio dèi Luoghi Pii di Brescia, che ebbero in dono i beni cluniacensi di Comezzano e dintorni. Il documento, di cui pubblichiamo qui di seguito il testo completo, illustra anche i rapporti di quella cappella campestre con la pieve di Trenzano, alla quale apparteneva quindi anche il territorio di Castelcovati, come vi appartenevano quelli di Comezzano, Cizzago e Castrezzato. Fra i pochi documenti di Rodengo, che ho potuto vedere nell’accennato Archivio dei Luoghi Pii si trova - molto ampia e importante - la descrizione dei beni del monastero cluniacense nel territorio dei quattro accennati comuni, fatta il 6 marzo 1341, in Comezzano, in platea comunis de Comezano dai rappresentanti dei detti Comuni per ordine del dott. Pietro de Alegris di Cremona, collaterale o assessore dì Giovanni da Besozzo, Podestà di Brescia per Giovanni vescovo di Novara e Luchino Visconti. L’atto, steso dal notaio Bertolino de Bechochis di Gussago, era fatto per dare il possesso di quei fondi al nuovo Priore di Rodengo, Don Ambrogio de Capitaneis de Melegnano, fedele creatura dei Visconti, e alla descrizione erano presenti Don Guglielmo Priore del monastero di Verziano, il prete Don Bonomo della chiesa non ancora parrocchiale di S. Faustino e Giovita di Comezzano, il notaio Antoniolo da Saiano, Novellino de Fabis di Comezzano e il ministrale del comune di Brescia Chierico di Rovato.
Questi documenti fissano la estensione dei fondi monastici di Rodengo in quel territorio nell’inizio della crisi fatale, che dissolve la proprietà ecclesiastica e la trasforma lentamente in proprietà privata, e spiegano, fra le righe, molta parte della storia economica e religiosa di quel territorio. Il documento del 1165 riflette un po’ di luce anche sulla storia della pieve di Trenzano, che possedeva questa lontana cappella campestre di S. Maria delle Nuvole (de lignicolis, dice il documento trasformando la denominazione de li novellis o dei novali) e i diritti relativi. L’arciprete Pescatore, anche a nome del capitolo della pieve, ne investiva in perpetuo il monastero cluniacense di Rodengo per il censo annuo di 9 denari milanesi, o di moneta equivalente, a S. Martino. L’atto è steso nella canonica di Brescia, non nella curia vescovile, e confermato dall’Arcidiacono della Cattedrale e da alcuni canonici, alla presenza di otto testimoni; anche la nomenclatura di questo documento rivela qualche cosa di nuovo. Eccone il testo desunto dalla pergamena originale:

Brescia, 17 marzo 1165. Die martis sextodecimo ante Kalendas aprilis. In civitate brixi in laubia canonicorum. In presentia domni Guidonis archidiaconi et oberti prepositi et Magistri Rubei et item magistri Matelli et presbiteri alberi i barilis, istis omni bus consentientibus et specialiter archidiacono iubente suamque auctoritatem interponente. Fecit investituram et datum piscator archi presbiter plebis trenzani per se ci suos fratres in monasterium de rodengo per domnum Lanfrancum priorem eiusdem monasterii ac missum. Nomi native de quadam ecclesia in honorem sancte marie dedicata in campis supra comezanum, et dicitur sancta maria de lignicoltis (1) et de omnibus accessionibus eiusdem ecclesie si que sunt vel in futurum erunt in infinitum tali modo quot predictum monasterium, presentes videlicet administratores et futuri successores qui per tempora erunt perpetuo a presenti die in antea ad utilitatem suprascripti monasterii sùprascriptam ecclesiam cum suprascriptis accessionibus, ut supra legitur habere et tenere debent sine contradictione et molestatione suprascripti archipresbiteri de trenzano suorum fratrum vel successorum qui per tempora futuri sint. Solvendo omni anno nomine census pro unaquaque festivitate sancti martini octo diebus antea vel octo postea aut ipso die sine occasione suprascripte plebi denarios bonos mediolanenses veteris monete, vel alios tantum valentes, novem, sex pro ecclesia et tres pro quarta decime animalium que in sedimine predicte ecclesie sint nascitura. Et promisit suprascriptus Archipresbiter suprascripto priori in vice suprascripti monasterii quod ipss et sui fratres omni tempore quicquid actum est ratum habebunt et quod ipse ab eisdem suis fratribus et a suis successoribus prefatum monasterium defendet. Penam autem inter se statuerunt prior ex parte sui monosterii et Archipresbiter ex parte sue plebis ut si quis ex ipsis vel ex suis successoribus omnia que dicta sunt superius non observaverit, componat qui contrafecerii ratum habenti pene nomine suprascriptum censum in duplum et post penam solutam hoc breve in sua stabilitate ac firmitate permaneat.
Factum est hoc Anno ab incarnatione domini nostri jeshu christi Millesimo Centesimo Sexagesimo quinto . Indictione terciadecima Interfuere presbiter ugo de sancto alexandro . et presbiter Romanus et Johannes qui et asininus dicitur . et Ubertus conversus de buthiciolis . et Uchizonus de rodengo. et Albericus de burdenale et Lanfrancus de sanethoco. ac petrus de pathergnono testes Rogati. Ego Albertus notarius de capriano inter fui et Rogatus scripsi.


(1) E’ una delle tante formole usate nel territorio bresciano per indicare le terre bonificate e ridotte a cultura. Questi sinonimi sono: Novagli di Montichiari, Novelle di Sellero, Nigoline di Franciacorta, Nuvole di Castelcovati, Nuvolera e Nuvolento.

Paolo Guerrini, in "Memorie storiche della diocesi di Brescia", I, pp. 221-223




CASTELCOVATI - CENNI STORICI

«Con un poco di Castello, ma destrutto, habitato da particolari» Era un piccolo castello che sorgeva sull’incrocio di due arterie importanti: la Chiari-Comezzano (nord-sud) e la Castrezzato - Urago o Rudiano (est - ovest). Il Guerrini e il Panazza dicono che fosse stato costruito dalla famiglia Covati che aveva quivi larga proprietà; famiglia, sempre secondo il Guerrini, discendente dai Masperoni, antichi feudatari nella zona di Chiari.
Lasciamo all’illustre storico la paternità di queste induzioni; certo si è che il castello non aveva grande importanza e la vecchia torre, che sorge presso il quadrivio, è l’unico avanzo, adibito a campanile, di quello che dovrebbe essere stato non un «castrum» ma un semplice ricetto per la difesa dei dipendenti coloni che abitavano qui attorno nelle loro capanne o casette per lo più di legno. Ne deriva che per la storia non vi è molto da dire. Nel 1322 la soldataglia tedesca di Enrico d’Austria dopo il saccheggio, avrebbe incendiato il castello. Ancora i tedeschi, molto più tardi, furono i protagonisti di tristi imprese, dopo la battaglia di Chiari (1 settembre 1701), saccheggiando ogni cosa, persino la chiesa, e riducendo alla fame la povera popolazione.

V. G. DA LEZZE, Il catastico bresciano 1609-1610, pag. 461. v. G. PANAZZA, in «Storia di Brescia», voi. I, pag. 894, n. 1, scrive: «a Villa Franca (oggi Castelcovati) rimangono la torre mutata in campanile e qualche traccia dei nucleo centrale del castello già Masperoni (?) e poi dei Covati»; e P. GUERRINI, S. Maria delle Nuvole, in «Memorie storiche della diocesi di Brescia», 1900, pag. 921. ID., I tedeschi a Castelcovati, in «Giornale di Brescia». V. J. MALVEZZI, op. cit., dist. IX LVIII e LIX. V. G. RUFFI, Relatione della guerra dell’anno 1701 e rovina di Castelcovati, in «Cronache bresciane inedite», vol. III, pag. 479.

Fausto Lechi, in "LE DIMORE BRESCIANE", pag. 39




QUEI LIGNICOLI DI SANTA MARIA

Questa è la storia, tenue ma affascinante, di un piccolo popolo dalle origini misteriose, e di una chiesetta dalle origini altrettanto misteriose le cui vicende hanno lasciato minuscole ma nitide tracce, l’ultima delle quali è tuttora riscontrabile negli attuali documenti catastali. Vorrei raccontare questa storia al rovescio, cominciando appunto da questa traccia, che si riferisce a un antico fabbricato agricolo, chiamato Cascina Nuvole, situato nella campagna a sud-est rispetto al centro storico di Castelcovati: si trova sulla strada che da Castelcovati porta a Comezzano, circa trecento metri dopo l’incrocio di Fienile Bontempi.
Seconda traccia: fino alla seconda metà del secolo scorso esisteva nei campi situati sullo stesso lato di detta strada, qualche centinaio di metri più a est della Cascina Nuvole, una chiesetta denominata Santa Maria delle Nuvole. Negli atti della visita pastorale del vescovo Bollani, relativi agli anni 1565-67, si parla di una «Ecclesia campestris S. Maria delle Nigole», una denominazione che riporta pari pari la dicitura popolare con cui veniva designato l’edificio. Una prima osservazione: perché «nigole», e non «nigoi», come comporterebbe un corretto uso del dialetto locale?
Terza traccia: un documento del 17 marzo 1165 (undici anni prima della battaglia di Legnano) dice che il parroco di Trenzano, l’arciprete Pescatore, dona ai monaci benedettini di Rodengo la chiesa di «Sancta Maria de Lignicolis» situata «in campis supra Comezanum». Anche Santa Maria delle Nigole e Santa Maria delle Nuvole appartenevano ai monaci di Rodengo: è evidente che si tratta dello stesso edificio, che lungo i secoli ha assunto tre diverse denominazioni.
Quarta traccia: a poche decine di metri di distanza dal posto in cui si trovava detta chiesa, c’è un incrocio da cui parte una stradina, oggi parzialmente interrotta, che porta direttamente a Trenzano, passando a nord di Cossirano.
Quinta traccia: ai monaci di Rodengo apparteneva anche il monastero di Comezzano, e varie proprietà situate nella zona circostante; in vari documenti notarili, stipulati tra il XII e il XIII secolo, compare ogni tanto il nome «lignicola» talvolta deformato in «lignigula» o «lignigola». Il 12 aprile del 1165 il priore del monastero di Rodengo, Lanfranco, compera due pezze di terra nel territorio di Comezzano: «una iacet in lignigula, plodii unius», è scritto nel documento notarile. Il 5 febbraio 1166 il priore acquista «una petia terrae aratoriae in lignigola». Ai primi di gennaio del 1170 è la volta di «una petia terrae aratoriae quam habet in loco lignigula». Il 18 settembre 1189, in una bolla di papa Urbano vengono elencati tutti i beni appartenenti al monastero di Rodengo, tra cui la «cappella S.tae Mariae de lignicola». Il 7 febbraio 1199 il monastero acquista «a Mazolo de lignicolis... una petia terrae in Comezano ubi dicitur Lignicola». Il 10 dicembre 1206 lo stesso monastero compera «a Mazolo lignicola... una petia terrae in loco Dunelli in loco lignicola». Il fatto che Mazolo venga definito «lignicola», e che la località in cui presumibilmente abitava abbia lo stesso nome, può essere spiegato in due diverse maniere: o che la zona ha preso nome dagli abitanti, o che, viceversa, gli abitanti hanno preso il nome dal loro luogo di residenza. A questo punto sorge spontanea una domanda: che cosa significa lignicola? Coltivatore di alberi? Abitatore di boschi? Dimorante in case di legno? In genere sui dizionari questo nome non compare; su un solo dizionario di latino medioevale abbiamo trovato tale voce, tradotta con «adoratore di alberi». Naturalmente, è più che probabile che un adoratore di alberi abitasse in un bosco o nelle sue vicinanze, e che dimorasse in case di legno, visto che non gli doveva scarseggiare la materia prima. Detto per inciso, in un atto notarile del marzo 1118 viene nominato il «buscus de Gambarogna» esistente nel territorio di Comezzano. Ma al di là di questa testimonianza, sappiamo che in pianura, dopo la caduta dell’impero romano, con il calo della popolazione e l’abbandono delle terre, il bosco si riappropriò di gran parte delle terre messe a coltura dai Romani e dai Celti.
Sesta traccia, che potremmo definire culturale: in una lettera del 19 ottobre 1831, indirizzata dai fabbricieri della parrocchia di Castelcovati alla amministrazione dei Luoghi pii di Brescia, che alla fine del secolo XVIII erano subentrati ai Benedettini nella proprietà dei beni di quella zona, si chiede che una statua di Sant’Alberto, collocata nella Chiesa di Santa Maria delle Nuvole, venga trasportata nella chiesa parrocchiale di Castelcovati, perché la sagra annuale del santo, colà celebrata in mezzo ai campi, degenerava regolarmente in manifestazioni non propriamente morigerate. Si parla di «crappole, gozzoviglie, schiamazzi», si accenna a «diverse compagnie frammiste, la maggior parte di sesso diverso»; inoltre «sembra succeda in alcune la gara di giungere al riprovevole scopo di intemperanza, per l’uso troppo soverchio di vino e liquori». Tiriamo le somme: in dialetto Lignicola diventa Lignigola (o Lignigula, a seconda della zona); al plurale fa Lignigole, anche se maschile, come del resto nell’uso latino. Ad esempio, chi era passato di là diceva: «So stat ai Lignigole». Col trascorrere dei secoli, dimenticato il significato del nome, si è passati a dire: «So stat a le Nigole»; nello stesso modo «Santa Maria dei Lignigole» è diventato «Santa Maria delle Nigole»; nell’uno e nell’altro caso la differenza di pronuncia è quasi impercettibile. La trasformazione, stando ai documenti più sopra riportati, è avvenuta tra il XIII e il XVI secolo. Ma quando si è iniziato a chiamare con tale appellativo gli abitanti di quel sito? Cominciamo col dire che il culto degli alberi era molto diffuso tra i Celti, i quali nel VI secolo A.C. avevano occupato gran parte dell’Italia del nord, compresa la nostra provincia; riti ed usanze varie sopravvissero anche alla successiva romanizzazione. Nelle campagne la diffusione del Cristianesimo fu molto più lenta che nelle città, tant’è vero che «paganus», da «abitante del pagus» cioè del villaggio agreste, passò a significare «idolatra». Ancora nella prima metà del secolo VIII era molto diffuso il culto degli alberi e delle fonti, dato che se ne duole sentitamente il re longobardo Liutprando, che arriva a stabilire pene molto severe non solo ai trasgressori, ma anche a quelle autorità che si mostrassero troppo permissive. Data la povertà dei mezzi di comunicazione e la mancanza di un controllo capillare sul territorio agricolo, si può presumere che queste pratiche siano state quasi completamente estirpate solo un paio di secoli dopo, cioè verso la fine del primo millennio. E’ da allora che gli emarginati e irriducibili abitanti di quella che fu poi chiamata (e si chiama tuttora) Campagna di Santa Maria sono stati denominati Adoratori di alberi; non prima, perché i soprannomi nascono dalla singolarità degli attributi a cui si riferiscono. A Cizzago, che non è molto distante da Santa Maria, è durata fino ai primi decenni di questo secolo l’usanza, corredata da pratiche che oggi definiremmo a luci rosse, di festeggiare un albero la terza domenica di maggio, ma si trattava di un singolo episodio a cadenza annuale. I Lignicoli di Santa Maria invece pare ci dessero dentro un po’ tutto l’anno con la faccenda di adorare le piante. Quel culto non deve essere finito di colpo, se la denominazione è stata modificata solo qualche secolo dopo, quando cioè quel «Lignigole» non ha più avuto alcun significato, ed è stato sostituito dal più comprensibile «le Nigole». C’è un filo sottile ma robusto che collega le antiche usanze dei Lignicoli con quella che abbiamo definito la traccia culturale: quella «gara per giungere al riprovevole scopo di intemperanza» fa pensare a qualcosa di più della semplice voglia di trasgressione, e suggerisce l’idea che quella sagra di sapore orgiastico affondi le radici in antiche usanze solo parzialmente camuffate dal sopraggiunto rituale cristiano, e si saldi strettamente con i riti degli antichi cultori di alberi, che per secoli avevano calpestato quel suolo, prima di disperdersi nei paesi vicini. La chiesa di Santa Maria è sopravvissuta sicuramente fino al 1852, perché riportata dai mappali di quell’anno. E’ crollata o è stata abbattuta prima del 1898, perché non risulta più segnata sulle mappe catastali di quel periodo. La zona abitata dai Lignicoli doveva essere quella situata sul lato opposto della strada rispetto alla chiesa, perché negli anni 20 e 30 di questo secolo, quando è stato esteso l’uso dell’aratro a lama lunga, in quei campi sono emersi frammenti di mattoni e di calcinacci. La statua di Sant’Alberto e la sua relativa festa sono state trasportate nella parrocchia di Castelcovati nell’anno 1832.

Giacomo Massenza, in "Incontri di storia bresciana" pp. 31-34




COMUNE DI CASTELCOVATI - brevi cenni storici -

Sebbene la conformazione della zona conosciuta come Sgraffignana, che rivela una simmetria tipica della centuriazione, porti ad ipotizzare un’origine romana, il documento più antico riferibile a Castelcovati segna la data 27 maggio 1220. È un atto del podestà di Brescia, Obertino Gambara, con il quale si concedono le immunità comunali ad un castello, in realtà un cascinale fortificato, appartenente ai Masperoni e ai Covati di Chiari. Da qui il nome Villafranca, successivamente diventato Castrum Cohatorum, Villa del Castello, Castel de Covati. Il castrum era edificato “in campanea Sanctae Mariae”, dove sorgeva la chiesetta di Santa Maria delle nuvole, scomparsa nella seconda metà del secolo scorso, che l’arciprete di Trenzano, allora proprietario, aveva donato ai monaci cluniacensi di Rodengo nel 1165. È probabile, quindi, che il primo nucleo abitato si sia sviluppato intorno a quest’oratorio, in una zona certamente bonificata dall’opera dei benedettini, dove in precedenza si formavano pantani ed acquitrini insalubri per via delle acque sorgentizie e degli scoli che si spargevano liberamente nelle campagne. Il lavoro dell’uomo ha cambiato completamente il volto di queste terre nel corso del tempo, per la progressiva messa a coltura dei terreni incolti, specie dopo la paziente e ingegnosa opera di costruzione della rete idrica irrigua, per derivare acque dall’Oglio. La roggia Castellana viene scavata a partire dal 1331, ma occorreranno più di due secoli prima che il lavoro venga ultimato. È verso la metà del ‘500 che il paesaggio rurale prende quella tipica conformazione che si è mantenuta quasi fino ai giorni nostri: i campi sono tenuti a “larghe”, grandi riquadri segnati da canali e strade, delimitati da pioppi, platani. gelsi, filari di vite. La produzione agricola aumenta, ma il raccolto non va oltre il 5 o 6 volte il seminato, non assicurando alla popolazione nemmeno il necessario per la sussistenza. All’inizio del ‘600 gli abitanti del paese raggiungono il migliaio di unità. Vivono nutrendosi soprattutto di frumento, segale e miglio. Ma la stragrande maggioranza del raccolto appartiene alle famiglie nobili cittadine che hanno qui le loro proprietà. Per i contadini si creano i Monti di Pietà, depositi di granaglie che servono a far fronte ai numerosi periodi di carestia L’abitato, nel frattempo, si sviluppa attorno al castello; le costruzioni più rilevanti sono i palazzi dei nobili Bargnani e De Marinis. Non lontano sorge la chiesa dedicata a S. Antonio abate. Il primo rettore della parrocchia, che secondo il Guerrini sorge per dotazione del monastero di Rodengo, è Giacomo Oldofredi, nobile di Iseo, nominato nel 1444 mentre il primo arciprete è Giuseppe Pelucchi di Rovato, come risulta da un decreto vescovile del 1639, lo stesso che assicura ai parroci del paese il titolo di Vicario Foraneo, privilegio conservato fino al 1750. Nel 1400 sorge pure l’oratorio di S. Marino: lo documenta un pregevole affresco, attribuito alla scuola del Foppa, raffigurante una Madonna con bambino e ai lati i santi Antonio abate e Marino. La chiesetta costudisce anche una serie di ex voto, dipinti murali risalenti agli inizi del ‘500. La figura di S. Rocco, ripetuta per ben 9 volte, è legata alle epidemie di peste che colpiscono Castelcovati, in ondate successive, nel 1478, nel 1513, nel 1575 e nel 1630. L’oratorio viene rinnovato nella sua struttura nella seconda metà del ‘600, e poco a poco la devozione a S. Marino, il cui radicamento nella zona è un fatto tuttora inspiegato, si tramuta in devozione per la Madonna Addolorata. A Lei si dedica un altare con una bella statua lignea. All’alba del ‘700, la comunità viene coinvolta, suo malgrado, nell’episodio più eclatante e drammatico di tutta la storia di Castelcovati: la battaglia di Chiari (1° . settembre 1701), durante la guerra di successione spagnola. Dapprima l’esercito franco-spagnolo, forte di ottantamila uomini, si accampa per tre mesi nei territori a sud della Castellana, saccheggiando e scoperchiando case nelle contrade Sgraffignana, dei Gatti e Barcarola; poi, Eugenio di Savoia, al comando degli avversari tedeschi, ordina una rappresaglia contro il paese per punire il parroco, don Giuseppe Ruffi, reo di non averlo avvertito della partenza dei franco-spagnoli. In poco tempo muoiono circa 400 persone, per il freddo, la fame e le malattie legate agli accadimenti. Anche la chiesa viene in parte distrutta. Solo nel 1820, dopo più di cento anni, la popolazione ritornerà oltre i mille abitanti. Quasi a sancire la fine di un periodo, fra gli ultimi del ‘700 e i primi dell’800, viene edificata la nuova parrocchiale, per volontà del parroco, don Francesco Andreoli. Conserva i quattro altari presenti nella chiesa precedente e viene aggiunto quello che attualmente è dedicato al Sacro Cuore. Vi trovano posto le tele della Natività e della Resurrezione, entrambe cinquecentesche; la pala dell’altar maggiore, con il seicentesco dipinto di S. Antonio abate, attribuito a Santo Cattaneo; la bella Via crucis di Giuseppe Teosa. Solo successivamente la chiesa viene arricchita con affreschi. Quasi contemporanea alla edificazione della parrocchiale è la costruzione dell’attuale torre campanaria; mentre il cimitero, prima situato dietro la chiesa di S. Alberto, un tempo dedicata ai Santi Fermo e Rustico, viene spostato accanto alla chiesetta di S. Marino, probabilmente dopo l’epidemia di colera che colpisce il bresciano ed anche Castelcovati nel 1836, primo episodio di una serie che dura fino al 1880. Sono malattie mortali che scandiscono ancora la precarietà del vivere, come nei secoli precedenti, accompagnandosi a condizioni generali di arretratezza. L’economia rurale, in cui l’attività agricola, praticata con mezzi rudimentali, per la produzione di granoturco, lino e la coltivazione dei gelsi per la bachicoltura, continuerà a caratterizzare la vita degli abitanti fino alla seconda guerra mondiale. Solo negli ultimi cinquanta anni il paese trasforma la sua economia: le giovani generazioni dalle origini contadine, rispondono al richiamo della metropoli milanese, che offre lavoro duro, ma redditizio nei cantieri edili. Castelcovati cambia il suo aspetto espandendo notevolmente l’abitato, per rispondere alle esigenze di una popolazione sempre in crescita, che ha ormai raggiunto quota cinquemila (nel 1996, ndr).

Giuliano Gritti in ''...la mano della vita...'' pp. 45-46




L'ANTICA CHIESA DI SANTA MARIA DELLE NUVOLE

Tra i possedimenti del monastero cluniacense di San Nicolò di Rodengo vi era, fin dall’inizio del XII secolo, la grangia di Comezzano, un nucleo fondiario di grande valore agricolo perché coincidente con l’inizio della fascia delle risorgive, le cui acque, indispensabili per l’irrigazione dei campi, hanno avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’intera area. Lignicola era un piccolo insediamento posto sopra Comezzano, nella campagna meridionale di Castelcovati. Qui, dopo alcuni acquisti di terre, i monaci di Rodengo ottennero nel 1165 dall’arciprete di Trenzano la chiesa di S.Maria delle Nuvole per un censo di 9 denari milanesi, sei relativi alla concessione della chiesa e tre per la quarta parte della decima degli animali che sarebbero nati sul suo territorio. La cessione e la precisazione che la chiesa era posta ormai in campis, indicano che si doveva trattare di una realtà abitativa in fase di abbandono e l’affidamento ai cluniacensi aveva lo scopo di favorirne la ripresa insediati- va e produttiva. Nel corso del XIV secolo l’abbazia di Rodengo rinunciò allo sfruttamento diretto delle sue proprietà, passando al godimento indiretto, mediante il percepimento dei fitti dovuti dai concessionari. A reggere le sorti del cospicuo patrimonio fondiario non vi era più un priore cluniacense ma un abate commendatario, interessato più alle rendite ditali beni che al loro effettivo funzionamento. Questo passaggio nella gestione del patrimonio immobiliare era determinato dalla crisi del monachesimo cluniacense in Italia, che coinvolse anche il priorato di San Nicolò, assegnato in commenda a partire dal 1399 a esponenti della curia romana, i quali amministrarono il beneficio tramite delegati che ne affittarono i beni a prezzo di mercato. Ai disordini seguiti a una tale gestione assenteista venne posto fine nel 1446 con l’affidamento del monastero di Rodengo ai monaci di Monte Oliveto. Questi rimasero titolari dell’abbazia fino al 1797, quando la Repubblica bresciana decretò la soppressione del monastero e la confisca di tutti i suoi beni. Gli olivetani mantennero quindi il possesso della chiesa di Santa Maria fino alla fine del XVIII secolo. Nell’estimo del 1641 i religiosi risultavano possedere a Castelcovati “un eremitorio [...] con un orto chiamato Santa Maria delle Nuvole, dove si mantiene un eremita”, oltre a una quota del locale mulino. Nel 1786 era segnalata invece solo la chiesa “con piccola casetta e orticello, dove si mantiene un romito per custodia”, dalla quale il monastero non traeva alcun profitto. Dopo il 1797, la chiesa di Santa Maria delle Nuvole entrò in possesso dell’Ospedale dei mendicanti o Casa di Dio di Brescia, istituto di ricovero per indigenti che si finanziava attraverso le rendite del proprio patrimonio immobiliare. Dalla relazione del parroco per la visita pastorale del 1815 risultava che l’oratorio era sì di proprietà privata ma aperto al pubblico per il culto. Nel 1832, con il trasferimento nella chiesa parrocchiale della statua di San Alberto che lì si venerava e che dava vita ogni 7 agosto alla fiera omonima che richiamava fedeli dai comuni limitrofi, la chiesa di Santa Maria delle Nuvole cadde in abbandono. Quando, nove anni dopo, l’Amministrazione degli orfanotrofi e delle case di ricovero di Brescia - legittima proprietaria dell’edificio da quando nel 1831 la Casa di Dio con il suo patrimonio vi era confluita - ne deliberò l’abbattimento, non sembra che il provvedimento sortisse rimostranze tra la popolazione e tanto meno tra il clero locale. Sicuramente i sacerdoti che si erano succeduti a Castelcovati in età moderna non avevano mai troppo amato quel luogo, in quanto non rientrava sotto la propria giurisdizione, bensì sotto quella degli olivetani di Rodengo. Lo testimonia la rimostranza al vescovo fatta dal parroco di Castelcovati nel 1665, quando denunciava l’abuso di “celebrare in detto oratorio in giorno di festa avanti la messa parrocchiale, [distraendo] il popolo dal venire alla mia chiesa” Il senso di fastidio si era accentuato nel primo Ottocento, quando quel luogo di culto, di fatto affrancato da ogni giurisdizione, in agosto diventava frequentato per la fiera di Sant’Alberto. Giacomo Massenza ha ben documentato quanto fece il parroco Paolo Codeferini per riportare sotto il suo controllo quella festività e togliere così ogni attrattiva all’antica chiesa. Cosa pensasse la gente comune di quella demolizione non si sa . Di certo non protestò e non vi furono problemi di ordine pubblico. Del resto quella chiesa posta ai margini del territorio comunale era un po’ di tutti (abitanti di Castelcovati, Castrezzato, Cizzago e Comezzano) e... di nessuno! Così il più antico luogo di culto insistente sul territorio di Castelcovati cadeva a picconate nell’indifferenza generale. L’ironia della sorte ha voluto che l’unica dettagliata descrizione di quell’edificio giunta sino a noi sia la planimetria e la relazione redatta dall’ingegnere Lorenzo Ridolo nel dicembre 1840 per il suo abbattimento. Da questi documenti apprendiamo non solo la pianta dello stabile, canonicamente orientata con l’abside a est e il portale a ovest, ma anche le dimensioni e alcune quote: “1. Chiesetta lunga m. 10,20; larga 5,65; alta 4,22 al piovente. Il pavimento è di cotto. Copertura sopra a tavelloni con arco di cotto assicurato da spranga di ferro. Uscio a ponente con due imposte a doppie assi che si chiude con spranga di legno. Finestra a ponente [posta sopra la porta d’ingresso]. Uscio a mezzodì con imposta. 2. Presbiterio a levante: lungo m. 4,70; largo 4,05 [con due finestre]; alto 3,50. Pavimento di cotto. Volto sopra reale. 3. Sacrestia: lunga m. 4,12; larga m. 2,50; alta 2,70. Pavimento di mattoni. Volto reale. Uscio d’ingresso dal campanile con imposta fornita di serratura e chiave. 4. Campanile ed andito uniti, il tutto mancante di serramenti” Seguiva la descrizione dell’annessa casa del bracciante consistente in una stanza, la cucina e uno stanzino al piano inferiore e una camera e un locale al piano superiore. Interessante è il “portichetto lungo m. 16,00; largo 1,60; alto 3,35”, che non venne abbattuto. Per le notevole lunghezza e la scarsa profondità sembra essere stato edificato non tanto per servire all’edificio rurale quanto per riparare pellegrini e bancarelle durante la fiera di Sant’Alberto. La chiesa, il campanile e la sacrestia vennero rasi al suolo nel 1841 dall’impresario Pietro Cattori, lo stesso che ebbe il compito di ristrutturare la cascina detta Fienile delle Nuvole (oggi in via Comezzano n. 132), sempre di proprietà della Casa di Dio, utilizzando “pietre e mattoni provenienti dalla demolizione della Chiesa detta di Santa Maria delle Nuvole [...] posta a poca distanza dal locale in cui si devono eseguire le opere” In un’epoca in cui si riciclava quasi tutto, quei poveri resti opportunamente ripuliti dai calcinacci entrarono in questo modo a far parte di un nuovo edificio.

Sergio Onger, in "L'altra campana" giugno 2008 pp. 14 - 15



I CADUTI "RITROVATI"

I caduti della II Guerra Mondiale: ritrovati 3 soldati sepolti all'estero

L'elenco pubblicato sull'articolo di Bresciaoggi indica il luogo di sepoltura di oltre 300 internati militari bresciani (ma anche di qualche prigioniero politico o lavoratore coatto), che dopo l'8 settembre 1943, sbandati e senza ordine, gli stati maggiori smobilitati, il re in fuga, finirono nei campi di prigionia degli ex alleati. Deceduti e poi sepolti nelle fosse dei lager o nei cimiteri dei paesi vicini, poi sul finire degli anni '50 esumati e quelli identificati trasferiti in sei cimiteri italiani d'onore di Austria, Germania e Polonia. CADUTI BRESCIANI SEPOLTI NEI CIMITERI MILITARI ITALIANI D’ONORE (GERMANIA - AUSTRIA – POLONIA):
CASTELCOVATI:

BRESCIANELLI GIOVANNI, NATO IL 3 GENNAIO 1917 A CASTELCOVATI (BRESCIA) – DECEDUTO IL 10 GIUGNO 1945 - ATTUALMENTE SEPOLTO A FRANCOFORTE SUL MENO (GERMANIA) - CIMITERO MILITARE ITALIANO D'ONORE - POSIZIONE TOMBALE: RIQUADRO A - FILA 5 - TOMBA 22.



LUPATINI BATTISTA, NATO IL 16 SETTEMBRE 1922 A CASTELCOVATI (BRESCIA) – DECEDUTO IL 14 MARZO 1945 - ATTUALMENTE SEPOLTO AD AMBURGO (GERMANIA) - CIMITERO MILITARE ITALIANO D'ONORE - POSIZIONE TOMBALE: RIQUADRO 1 - FILA Q - TOMBA 22.

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NODARI PAOLO, NATO IL 9 OTTOBRE 1915 A CASTELCOVATI (BRESCIA) – DECEDUTO IL 15 APRILE 1944 - ATTUALMENTE SEPOLTO A FRANCOFORTE SUL MENO (GERMANIA) - CIMITERO MILITARE ITALIANO D'ONORE - POSIZIONE TOMBALE: RIQUADRO M - FILA 9 - TOMBA 24.




I link relativi a questo articolo:
i caduti bresciani - bresciaoggi
articolo 7 luglio - bresciaoggi
sito roberto zamboni

Quinto C.



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